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LEOPARDI 1817. Giacomo e i suoi ‘Falsi d’autore’ di Fedora Ciriaco e Arturo Primavera

by Roberto Tanoni

Pubblichiamo, con vero piacere, questo contributo da parte di due appassionati,  Fedora e Arturo,  di tutte le vicende leopardiane  sia esse poetiche che biografiche, attuali o passate.

LEOPARDI E I SUOI FALSI

Vi sareste mai immaginati che Leopardi potesse essere l’artefice di un “originale” falso d’autore?

Vi raccontiamo quanto avvenne quando il nostro Giacomo, giovanissimo, pubblicò nel 1817 la traduzione di un antico
inno greco, “Inno a Nettuno nuovamente scoperto”, e due odi in lingua greca, opere date come anonime e appena
ritrovate in antichi manoscritti.

Ecco come presenta il tutto: “Un mio amico in Roma nel rimuginare i pochissimi manoscritti di una piccola biblioteca il
6 gennaio dell’anno corrente trovò in un Codice tutto lacero, di cui non rimangono che poche pagine, quest’ Inno greco; e poco appresso speditamene una copia, lietissimo per la scoperta, m’incitò ad imprenderne la traduzione poetica italiana, facendomi avvisato che egli era tutto atteso ad emendare il testo greco, a lavorarne due versioni latine, l’una letterale e l’altra metrica, e a compilare ampie note sopra l’antica poesia […]. Fu forza cedere; ed ecco che io do ad un’ora al Pubblico la nuova della scoperta, la traduzione dell’Inno in compagnia di alcune note, e la promessa di un’altra molto migliore edizione dello stesso greco componimento. L’Inno pare antichissimo, avvenga chè il Codice non sembri scritto innanzi al trecento.”

La pubblicazione ebbe un’enorme risonanza tra gli specialisti e suscitò a Roma un vespaio di polemiche soprattuto su chi avesse fornito a Leopardi la copia dell’originale del manoscritto.
Ma… in realtà si trattava di un magistrale falso: in una lettera dello stesso anno all’amico Pietro Giordani non potè nascondere la sua divertita meraviglia per l’accaduto: “L’inno a Nettuno ha avuto fortuna a Roma, dove meno dovea.
S’arrabbattano per trovare quel Ciamberlano, il quale per la paura è corso subito a intanarsi, e rannicchiarsi in me di maniera che siamo diventati tutt’uno.”

Ma per quale motivo il giovane Leopardi volle cimentarsi a scrivere e a divulgare questi falsi? Un simile agire oggi riscuoterebbe la riprovazione generale dei lettori. È ammesso il falso d’autore nelle arti figurative, nei limiti in cui lo stesso sia una imitazione perfetta dell’opera che si copia. In letteratura l’imitazione è sempre stata ritenuta una scialba e stantia riproposizione di temi creati da altri autori, sostanzialmente per finalità meramente commerciali.
Il fine di Leopardi era completamente diverso e sicuramente più nobile: l’esaltazione del mondo classico e della poesia greca, in contrapposizione alla poesia moderna del suo tempo, quella romantica: il modello del suo ideale artistico era ispirato alla concezione della poesia nel mondo antico.
Ammirava negli autori greci la fresca e semplice descrizione del mondo, dominato dalla Natura, divinità anch’essa e ispirata dal mito. I classici avevano sublimato i più naturali sentimenti umani in maniera diretta.
Quindi il tentativo di Leopardi fu quello di tornare, poeticamente, indietro nel tempo, per ricreare quella poetica classica, nella coscienza che un poeta vivente nel XIX sec. (secolo di per sé impoetico, come ebbe a definirlo nel suo diario segreto, lo Zibaldone), dovesse tornare alla vera poesia, alla poesia immaginativa, fonte di illusione e al contempo di speranza, come mezzo di sopravvivenza alla nuda realtà.

Fedora Ciriaco e Arturo Primavera

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