LA PASSIONE DI LEOPARDI PER LE UOVA DI PASQUA
CERTO NON QUELLE DI CIOCCOLATO
A scuola si facevano ancora…ma con la DAD si perderà anche questa tradizione…
Dalle nostre parti Pasqua una volta non sarebbe davvero tale senza le uova pinte (o pitte cioè colorate) e la crescia di formaggio. Una tradizione diffusa nelle Marche ormai da secoli, e particolarmente amata anche dal poeta Giacomo Leopardi che ne parla in due sue lettere scritte alla sorella Paolina da Bologna il 17 marzo 1826. “Salutami il curato e Don Vincenzo, e dà loro a mio nome la Buona Pasqua, che io passerò senza uovi tosti, senza crescia , senza un segno di solennità”. Ne fa cenno anche due anni dopo, il 31 marzo 1828: “A proposito di Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno: mangiatevele senza farle patire e non siano tante”. Copia della lettera la trovate nella chiesa di Montemorello a Recanati. Primo altare a destra.
Le uova toste sono le uova sode e poi messe a colorare. E la crescia poteva essere dolce o salata al formaggio. Certo una preziosa variazione del CIAMBELLO’ più popolare.
Le uova pinte e colorate
Le vere ‘uova di Pasqua’ sono quelle fatte dalle galline e cotte sode, poi dipinte e usate per giocare. E’ una delle tradizioni più diffuse nelle Marche in occasione della Pasqua, pare fin dal Medioevo: le cosiddette uova ‘pinte’, che venivano decorate usando i coloranti naturali che si trovavano in casa mettendole a bollire con il carciofo o la cipolla e attaccando sul guscio foglioline e petali di fiori di campo. Queste piccole opere d’arte poi possono essere usate per sfidarsi in gare di velocità – si fanno rotolare e si sta a vedere quale arriva prima – o a scoccetta, antico gioco con cui le uova si picchiano l’una contro l’altra. Chi rompe il guscio perde e sfidava un altro avversario.