Home » Pagina di esempio. » RECANATI. Il Venerdi Santo di Giacomo Leopardi. I Discorsi Sacri

RECANATI. Il Venerdi Santo di Giacomo Leopardi. I Discorsi Sacri

by Roberto Tanoni

LA FLAGELLAZIONE DISCORSAO SACRO DI LEOPARDI

La Settimana Santa,  nelle tradizioni  popolare recanatese,  entra nel vivo il Giovedi Santo per trovare il suo apice nella processione del Venerdi Santo (…a Portorecanati La bara di notte!)

preceduta dalle TRE ORE  nella chiesa di SAN VITO. Costruita su un vecchio  impianto  in stile romanico-bizantino e successivamente   ceduta ai padri della Compagnia di Gesù i quali, a spese principalmente di due fratelli Leopardi, vi fondarono un collegio.

La chiesa ha subito un rifacimento nella seconda metà del Seicento a opera dell’architetto Pier Paolo Jacometti. Il terremoto del 1741 danneggiò profondamente la facciata che nel 1771 fu rifatta in cotto e con le colonne a spirale bicromiche, su disegno di Luigi Vanvitelli.

Dietro all’altare Maggiore c’è una lapide che ricorda che vi è sepolto padre Nicolaus Bobadilla uno dei sodali di Sant’Ignazio di Loyola fondatore della Compagnia di gesù….Dalla cappellina all’inizio della navata di destra si ha l’accesso all’oratorio della Congregazione dei Nobili, dove era conservata la tela del Pomarancio (Cristoforo Roncalli) raffigurante La presentazione al Tempio di Gesù, due piccole tele di Pier Simone Fanelli e L’Assunta del Latre.

Da questo luogo il giovane Leopardi leggeva  i suoi Discorsi Sacri. In questa stessa chiesina  Monaldo incrociò lo sguardo di Adelaide che divenne la madre di Giacomo Leopardi.

Ci piace immaginare la scena con i nobili recanatesi divisi in uomini e donne in scranni contrapposti a seguire il giovane Giacomo, superati appena i dieci anni,  leggere ogni venerdi santo un suo discorso sacro . Questi componimenti letti pubblicamente, con orgoglio dei genitori, sono quattro: Il trionfo della Croce (1812), Crocifissione e morte di Cristo (1813), La Flagellazione e Condanna e viaggio del Redentore al Calvario (1814).

Qui sotto, per chi è curioso, ne riporto uno scritto nel 1812 . Impossibile non notare la profonda preparazione culturale che si andava formando nel giovane Leopardi, anche nella catechesi cristiana dagli insegnamenti dei suoi precettori e Gesuiti; padre Torres, padre Sanchini e dal parroco di montemorello Diotallevi. Ma soprattutto la meravigliosa nascente fantasia del giovane Poeta.

La flagellazione

Discorso recitato il dì 10 marzo 1814

Omai le pene e gli strazi, che la crudele imminente carnificina recar deve alla natura umanata del Verbo divino, più non sono nei tristi presentimenti del suo profetico spirito, più non sono nelle animate pitture da sovrumana scienza rappresentate d’innanzi al suo presago sguardo, più non sono nelle crudeli immagini, nei tormentosi pensieri dell’afflitta abbattuta sua mente. È già presente il supplicio, sono gli esecutori spietati accinti all’opera infame, gronderà fra poco il sangue della vittima, fra poco l’Uomo Dio non avrà aspetto di uomo. Ahimè! si vide già là nel tempio scorrere dal corpo del tenero divino infante il sangue dalle proprie leggi prescritto, si vide là nel Getsemani scorrere dalla fronte e dalle membra tutte del Salvatore il sangue espresso a forza dai propri funesti presagi, ma non si vide ancora la mano sacrilega di uom forsennato trarre il sangue dalle vene del suo Fattore, non si vide la percossa dei flagelli, la puntura delle spine, la trafittura dei chiodi, squarciar, ferire, trapassare il corpo, il capo, le mani onnipotenti del divin Redentore. Tutto vedrassi fra poco, onde il colmo si ponga agli eccessi dell’uomo, e più non abbia che attendere il mesto contemplatore della umana natura, l’indagator sollecito degli arcani avvolti nell’ombra della sua propria essenza, per dare all’uomo fra i mostri tutti più spietati e feroci il primato della crudeltà e della insania. I primi colpi, scagliati da mano furibonda ed armata sulle carni innocenti dell’umanato Verbo divino, sono quelli sui quali mi è dato al presente di trattenere, o signori, la pietà vostra, e sono quelli appunto nei quali più che mai si mostra evidente l’audacia folle dell’uomo, la umiliazione e l’onta recata alla dignità infinita del Dio fatto carne, l’amore e la clemenza dell’Uomo Dio verso gli audaci, i folli, i ciechi esecutori degli eterni suoi incomprensibili decreti. Umiliazione, in cui, meno che in altro qualsivoglia punto della dimora di un Dio in terra, la sua gloria eterna risplende, e che però è di tutte le umiliazioni sostenute dall’Uomo Dio nella passione dolorosa la più crudele e terribile. Amore e clemenza, che, nell’audacia e nella crudezza dell’attentato, e nell’occhio umano impunita vastità dell’oltraggio, più riluce che in altro affronto dall’uomo recato al Dio fatto carne, nella sua ignominiosa passione. Questo è ciò che a provar m’accingo, signori. Che se arduo parvi il cimento, se audace vi sembra l’assunto, se difficile vi apparisce l’impresa, sospendetene per poco e serbatene ad altro tempo il giudicio; ma all’attenzione dei giudici la compassione unite e l’amore di redenti da un Dio, e redenti a price of blood.

  1. Dacchè, giunto il tempo alla esecuzion destinato dell’eterno decreto ineffabile, volle Iddio che, ad esaltare la sua misericordia, a soddisfare la sua giustizia, a salvar l’uomo ea nobilitare la umanità non meno che la universal natura creata, scendesse il Figliuol suo di cielo in terra e, assunta natura passibile, si facesse quasi uno di noi, volle ancora che alle umiliazioni da lui sostenute sino al tempo dell’acerba passione tal gloria and congiunta: che ad uom sensato si mostrasse non uomo solo ma Dio e uomo ad un tempo. Quindi è che, se i pastori di Palestina vagir lo udirono infante nella stalla di Bettlem, il videro ancora ammantato di luce e acclamato dalle angeliche schiere festose; se il vide l’Egitto fuggitivo ed errante, videlo ancora uguagliare al suolo i monumenti della sua credulità, distruggere gli altari eretti a numi sognati e fare in polve gli oggetti nefandi del suo sacrilego culto; e se il mirò Nazaret ubbidiente e soggetto a genitrice terrena ea genitor putativo, mirollo Gerosolima attorniato dai suoi dottori, impugnare udillo i loro argomenti, sciogliere i più sottili sofismi, e impallidir vide nelle lor cattedre que ‘vecchi maestri del popolo giudeo. Tentato rimirollo il deserto, ma rimirollo ancora trionfante del tentatore; perseguitato la Giudea, ma vincitore delle persecuzioni; cercato a morte dai farisei, ma delusore delle loro insidie. Echeggiò la Palestina della fama de ‘suoi miracoli, risuonò la Giudea dello strepito della sua dottrina, parlò il mare di Tiberiade dei suoi meravigliosi portenti. Passava egli beneficando e cinto di gloria, e felice stimavasi colui cui un lembo solo toccar fosse dato della sua veste. Sclamavano gl’infermi dietro il Salvatore e, resi sani, a divulgar si recavano le meraviglie ei prodigi oprati dal Nazareno. Destossi la invidia dei farisei e paventò che tanta gloria a ridondar non avesse in loro ruina. Ma, più glorioso nel loro livore, seguì l’Uom Dio a beneficare e oprar prodigi, e se talvolta schivò fuggitivo le giudaiche insidie, e se fu pur anco dal proprio volere costretto a sottrarsi alle pietre che la mano audace dei farisei era per lanciar contro lui, andò la umiliazione congiunta alla gloria che le acclamazioni incessanti del giudaico popol festoso, d’infermi sottratti ai più imminenti perigli, e d’altri tolti perfino al trionfo della morte di cui già divenuti eran preda, a lui procuravano toccante ed eccelsa . Il cibare nel deserto le seguaci turbe fameliche, il ricevere al suo piè supplichevole gli adoratori di numi bugiardi, i prìncipi stessi ei magnati, were trionfi of dignità sua divina, were trionfi of his supremo dominio, che, tra le umiliazioni puranco e gli oltraggi, ai quali, assumendo la umana natura, volle egli assoggettarsi, maestoso splendeva e lucente. Giunse il tempo della Passione spietata, giunse il tempo in cui il Salvatore dell’uomo dovea per man dell’uomo morire. Ma qual gloria non precedè là in Gerosolima, futuro teatro delle sue pene, le ingiurie che soffrir deve nella Passione imminente? Ah! tu lo vedesti, città ingrata e versatile, entrar trionfante fra le tue mura, accolto dai tuoi cittadini, acclamato dai tuoi fanciulli qual figlio di David, quale inviato dall’Eterno; tu che stendesti allora sotto i suoi piedi le vestimenta con quelle mani colle quali fra poco a cinger glieli avevi di catene; tu che alzasti giuliva le palme e gli allori del suo trionfo, con quelle braccia con le quali avevi ben presto a sollevare i flagelli; che il dicesti venuto in nome dell’Altissimo, con quella bocca colla quale fra poco chieder ne dovevi la morte. La notte è presente, in cui Gesù dar deve principio ai suoi patimenti; ma, qual Dio sapientissimo, il predice ai suoi discepoli, fa noto trovarsi fra essi il suo traditore, e con presaga mente si fa incontro alla squadra armata dei suoi nemici. Porge bensì alla catene le mani, ma cader fa prima sbigottiti e tremanti gli audaci ministri del furor farisaico. Condotto viene ai tribunali, ma confonde colla sapienza della risposta i giudici sfacciati. Giunto è però quel tempo, in cui vuol l’amor suo che i raggi sfolgoranti si ascondano della divinità, e, qual vittima mansueta, si sottoponga egli alla umiliazione più dura, all’affronto più doloroso. Pilato, quella sconsigliata creatura che osò farsi giudice del suo Creatore, condannollo ai flagelli; e tutto si appresta all’esecuzione dell’iniquo decreto. Quale spaventosa ignominia! Fu sempre il supplicio delle sferze presso le colte nazioni tenuto in conto d’ignominioso e d’idoneo a portare all’onor del punito il colpo più forte, nè fu delebil giammai l’onta e la macchia ad uom qualsiasi arrecata da simil pena. Dal fango in cui giacea alzò Roma la fronte superba e, resa col ferro signora del mondo, vietò ai popoli tutti a sè sommessi di far cadere colpo di flagello sopra i suoi cittadini, tutto minacciando di porre in opra, contro il trasgressore dell’orgoglioso divieto, il rigore delle sue leggi. Non ella le pene interdisse ancora più gravi, non della scure il supplicio, non della spada o del fuoco, ma sol dei flagelli, sì come di tali pene tutte più obbrobriosa ed infame. Nè esenti render volle i suoi cittadini dalle punizioni dei commessi misfatti, ma sol dallo scorno e dall’onta, quasi un’ignominia ridondasse della regina del mondo il vedere i figli suoi sottoposti alla punizione della sferza. Ora questa pena sì rifuggita e temuta, sì vituperosa ed infame agli occhi dell’uomo, è quella che a Gesù si destina; nè risplende nell’orribil cimento la gloria eterna dell’Uomo Dio, ma tace questi e, mosso dall’amore, sopporta l’obbrobrio e lo scorno. Fu ignominioso e crudele il supplicio della coronazione di spine; ma quella corona, quello scettro, quella porpora insegne furono di dominio e di regno, e nello schernito Nazareno adorò il cieco carnefice il suo signore, il suo Dio. Giunse al sommo della ignominia il supplicio della croce, ma sfavillarono in quel supplicio i raggi luminosi della divinità del Crocefisso, ottenebrossi al suo spirare la face del giorno, tremò il suolo ed aprissi in vaste fenditure, palpitò lo spietato carnefice, il Fariseo perverso, lo sconsigliato Giudeo, e nel morto Nazareno il suo Dio ravvisò, il suo Creatore. Che se vendicata non sembravi la crocifissione dell’Uom Dio, volgete, o signori, lo sguardo alle arene di Palestina, e là, di rimpetto alle ruine e alle ceneri dell’arsa Gerosolima, da mille e mille croci pendenti i cadaveri ravvisate di mille e mille giudei, che il Romano, tuttochè clemente domator di Palestina,
  2. E qui a considerar vi fate per poco l’immenso amor dell’Uom Dio, che nello atto rifulge della spietata sua flagellazione. Fu allora che tutte quasi spogliate l’esterne insegne della divinità, che velati i di lui raggi, splendenti a traverso dell’ammanto mortale, che, posto come il riparo alla propria potenza infinita, si diede egli, vittima mansueta ed inerme, nelle mani dei brutali carnefici, ed alla umiliazione acerbissima la volontà sottopose e la mente. Non qui un contrassegno apparve ai manigoldi della infinita dignità di Colui cui preso aveano un flagellar fieramente. Esultarono que ‘barbari, nè si videro tenebre che dasser fine alla loro gioia; insultarono, nè si vide tremuoto che ponesse termine ai loro motteggi; colpirono, nè si vide fulmine che colla polve li confondesse del suolo. Soffrì il Creatore del tutto l ‘ onta obbrobriosa, e tutta quasi dimenticò la sua somma potenza, per non avere il suo sguardo intento più che all’amore. Sì, fu l’amore che nell’orribil cimento il cuor gli sostenne e lo spirito; fu l’amore che nell’amaro conflitto gli porse conforto e sollievo, fu l’amore che in quegl’istanti angosciosi mitigò le sue pene. E quante volte e quante non avea già per bocca de ‘suoi profeti mostrato a questo amore, quante volte innanzi allo sguardo dei veggenti d’Israello pinta non avea coi colori più vivi la sua brama di soffrire i flagelli, la umiliazione e la pena a cui recavasi incontro? Ecco, disse, disposto io sono ai flagelli; inerme diedi il mio corpo ai carnefici, ai percussori spietati. Già si scagliarono questi sopra la loro vittima, già ne laceraron le carni, già tutte numerarono le mie ossa. Si diffuse siccome acqua il mio corpo, le mie ossa andarono sparse e dissipate. «Ah! noi il mirammo, sclamò Isaia, il mirammo, nè ci fu dato il ravvisarlo per uomo, quasi ascosto trovammo il suo volto vilipeso e schernito, il riputammo lebbroso, percosso il vedemmo da Dio ed umiliato, nè il raffigurammo che per uom di dolori, per uomo di obbrobri e consapevole della sua infermità ». Ah! tu il mira, o anima ingrata, vedi quel capo cadente, quelle pupille abbattute, quel volto pallido e sfigurato. Mira, se pur lo puoi senza fremere, se pur non rifugge agghiacchiata la umanità da tale spettacolo, mira quel corpo in cui parte non trovasi intatta, in cui piaga si congiunge con piaga, in cui altro non si ravvisa che sangue. Se brami ancor più per amarlo, se pene cerchi ancora maggiori, se il vuoi morto, o crudele, sarai paga fra poco. Trafitto vedrai quel capo da spine, cariche quelle spalle di croce, trapassate quelle mani da chiodi. Il vedrai esangue cadavere, pendente da tre piaghe, privo di vita e di spirito. Tutto vedrai quanto suggerir può di barbaro la inferocita mente dell’uomo, superiore in tutto al creato, nel vanto ancor di crudele, di sagace nel tormentare. Tutto vedrai; ma, poi che paga avrai fatta la tua sete di sangue, non negare amore all’amore, non ricusare corrispondenza a Colui che, infinito mostrandosi in tutto, infinito mostrossi ancor nell’amare. di sagace nel tormentare. Tutto vedrai; ma, poi che paga avrai fatta la tua sete di sangue, non negare amore all’amore, non ricusare corrispondenza a Colui che, infinito mostrandosi in tutto, infinito mostrossi ancor nell’amare. di sagace nel tormentare. Tutto vedrai; ma, poi che paga avrai fatta la tua sete di sangue, non negare amore all’amore, non ricusare corrispondenza a Colui che, infinito mostrandosi in tutto, infinito mostrossi ancor nell’amare.

‘Discorsi sacri’ di Giacomo Leopardi

IL TRIONFO DELLA CROCE

Giù per le balze del monte di Hai fugge precipitoso Isdraello. Giosuè suo duce, l’invitto domator delle genti, sprezzator de ‘pericoli, fugge ancor egli. A tergo l’inseguono animosi ed esultanti gli Aiti, fatti omai quasi certi di compiuta vittoria. Di già fuggendo quelli, inseguendo questi, son giunti alla valle sottoposta, nè ancor si ristanno gli Aiti dal correre alle spalle del fuggitivo Israele, che lontano dalle mura nimiche presto omai si rimira ad esser vittima infelice del furror degli Amorrei. Tutto minacciar sembra al popol di Dio inevitabile eccidio, ed un suo nemico promettente sicuro trionfo. Quando ad un tratto al cenno improvviso dell’Onnipotente leva Giosuè alto sull’asta lo scudo che in man tenea, su cui luminosi e fiammanti rimbalzando i raggi solari feriano con abbagliante fulgor le pupille. Ed ecco di repente sbucar a quel segno le ascoste insidie, che penetrando tra le mura nemiche dai finallor vittoriosi Cananei abbandonate, vi pongono il fuoco, che innalzandosi ben presto con ondosi vortici di fumo e fiamme al cielo, tutta distrugge ed incenerisce la città amorrea . Ecco a quel segno animato lo stuol fuggitivo volgersi prontamente e presentar la terribil fronte al nemico, che, avvilito e confuso al repentino assalto, regger non puote al valor d’Israele e, a ceder costretto, soggiace suo malgrado allo sdegno ed al ferro dell ‘esercito ostile. Ecco cangiata in compiuta vittoria degl’Israeliti la fuga, ed in vergognosa sconfitta degli Aiti il ​​vicino trionfo. Ravvisate, ornatissimi, nello scudo del condottier d’Israele un misterioso simbolo della Croce del Divin Redentore, quale più sacri interpreti han creduto ravvisarvi. Oppressa l’umanità dal giogo infernale, gemea tra le aspre catene della colpa, e tutto presagir sembrava all’uomo infelice perpetua la schiavitù, e all’Angelo delle tenebre perpetuo sull’uomo il dominio. Ma, dal seno dell’Eterno suo Padre disceso, il Figlio unigenito fatto carne innalzò a conforto dell’afflitta umanità il vessillo della Croce, ed ecco a quel segno atterrito l’inferno, abbattuta la colpa e, diradate le caligini di morte, vittoriosa e trionfante la vita. Se dal misterioso scudo del vincitor di Canaan gloria ritrasse l’Onnipotente, salute il popol suo prediletto, terrore e sconfitta il perfido Amorreo, così dalla Croce del Divin Figlio Umanato gloria al Ciel ne provenne e pace al giusto e salute, non meno che all ‘empio maledizione ed orrore.

  1. Già dalle mura di Gerosolima tra gli urli, le fischiate, le strida de ‘manigoldi e del popolo infuriato se n’esce Gesù con la sua Croce sul dorso. Gerusalemme ingrata, ecco che il tuo Signor t’abbandona. Parte da te per mai più rivederti. Infelice! conoscer non volesti il ​​tuo Salvatore, il tuo Dio e, sorda alle sue parole, gli occhi chiudesti per non veder quella luce che tuo malgrado ti balenava sugli occhi; verrà tempo che il fio pagherai di tua durezza e tuo malgrado la fronte chinerai a quegli che da te scacciasti, e frall’estreme ruine conoscerai quegli che conoscer non volesti fra le tue fortune. Lasciamo, ornatissimi, la sventurata Sionne in preda all’imminente ruina che le sovrasta e volgiam lo sguardo a Gesù che, circondate da ‘spietati carnefici, fatto compagno di due malfattori, s’ innoltra verso il Calvario colla sua croce sul dorso. Oh Dio! qual terribile avvilimento, è mai questo! Il Re de ‘Regi, il Signor dell’Universo è quegli che al grave incarico soggiace di quella Croce, che già fu mai sempre apportatrice funesta di maledizion, di terrore,maledictus a Deo est, qui pendet in ligno1Ah, questa sì è quella per l’orribile tormentosissima confusione e rossore quasi a morte riduce il verbo Divino: facta est confusio mortis . 2Ah, perchè mai ad un sì funesto spettacolo non si commuove inorridito il suolo e non sprofonda nelle cupe sue viscere i barbari crudelissimi autori di confusion così grande! perchè ad incenerirli non piovon dal Cielo irritato le folgori vendicatrici! perchè … Ma dove audace trascorre il mio labbro, e quai parole ad articolar mi spinge il cuor commosso da sì infelice spettacolo? Fede, candida Fede, sovrana Regina degli affetti e dei pensieri dell’uom cattolico, qual gloria mai tu mi mostri figlia portentosissima di confusion sì funesta! Sì, ornatissimi, dall’avvilimento medesimo del Divin Figlio incarnato gloria ne nacque, infinita gloria in confusione . 3No, più non è infame la croce, più non è di maledizione apportatrice e di sventura, dacchè degna ella fu resa di farsi agli omeri del Redentor Divino gloriosissimo incarico : evacuatum est scandalum crucis . 4Spingete lo sguardo, o Signori, attraverso i numerosi secoli devorati dal tempo fugace and mirate qual colla croce alla mano scorre qual fulmine devastatore dell’idolatria, Tommaso nell’Indie, Giacomo nell’Iberia, nell’Affrica Mattia. Mirate qual della Croce armato vince Giovanni il molle Asiatico, Bartolommeo l’Armeno feroce, Matteo il dovizioso Persiano. La Croce è di scudo e di spada insieme ai divulgatori felici dell’evangelico lume, la Croce è a ‘Martiri di aiuto per trionfar di tutti gli sforzi del nimico infernale, la Croce è ad essi di conforto nell’ultime mortali agonie, la Croce trionfa perfino dell’ostinazione de ‘Cesari, della perspicacia degl’Imperatori. Piegano alla Croce la fronte i troni più eccelsi, le città più sublimi, le più potenti monarchie. Spargonsi pel mondo tutto i trionfi della Croce, e la Regina istessa del mondo a gloria si ascrive di adorarla inalberata sulle cime del Campidoglio e del Tarpeo. Trionfante la Croce mai sempre delle porte infernali, domatrice de ‘crudeli persecutori, sostegno e difesa invincibile della Cattolica Fede, ben dimostra quanta gloria al Divin Redentore provenga dalla confusion sua medesima: gloria ben dovuta alla Passione sua dolorosissima, gloria infinita ed eterna, gloria finalmente ridondante tutta a maggior salute del giusto e confusione dell’empio.
  2. Rammentate, ornatissimi, quel giorno per sempre memorando e terribile allorquando il popolo d’Israello conquistator di Hai, vincitor di Gerico, domator per fino degli elementi medesimi, congregossi nella valle di Hebal e di Garizim a compier la solenne augustissima cerimonia già da gran tempo da Mosè stabilita. Eretto, giusta il sacro rito, di pietre non tocche da ferro l’altare sull’Hebal, collocasi nel mezzo alla valle l’arca sacrosanta tra numerosa turma dei Leviti e di Capi del popolo e quindi, schierate le tribù in forma di due ale sul monte Garizim dall’una parte e sull’Hebal dall’altra, si dà principio al solenne atto di religione. Pubblicata altamente la Divina Legge volgono i Sacerdoti ei Leviti la fronte a Garazim, e Benedetto, esclamano,Benedetto il fedele osservatore di questa legge, benedetto l’adorator del Divin nome, benedetto l’amator della pace, della castità, della giustizia. Amen Amen, rispondono le tribù schierate sul dorso a Garizim, Amen Amen, sì, benedetto. Maledetto , intuonano orribilmente i Sacerdoti volgendo all’Hebal la fronte, maledetto lo sprezzator dei divini precetti, maledetto l’amator di sangue, maledetto l’empio, l’adultero, l’ingiusto. Amen Amen , rispondono le tribù schierate sull’Hebal. Amen Amen, sì, maledetto . Al suono di queste orribili maledizioni l’aria turbata si corruccia, e mugghiando i monti e le valli ripeter sembrano Amen Amen, sì, maledetto. Il sangue istesso delle scannate vittime chieder sembra vendetta all’Eterno, e ripetere anch’egli Amen Amen, sì, maledetto . Ahimè, qual terribile immagine non ci presenta, ornatissimi, un sì tremendo spettacolo! La Giustizia Divina, roteando la spada lampeggiante e spaventosa, rimira l’amabil Redentore che, gravato il dorso di una pesantissima Croce, l’erte pendici a stento già monta del Calvario, e da questo e come dall’arca i Sacerdoti, Benedetto esclamar sembra l’apprezzator del Sangue Divino, Benedetto l’adorator fedele di questa Croce, sì, benedetto, maledetto lo sprezzator dei Divini patimenti, l’odiator dei seguaci della Croce, il conculcator del Sangue Divino, sì, maledetto. Gli Angeli anch’essi in bell’ordinati e di zelo ardenti per l’onor vilipeso del Dio della gloria, eco fanno alle voci dell’irata giustizia, e Amen rispondono, sì, maledetto l’empio, il ribelle, il nemico della Croce, Amen Amen, sì, maledetto. Ah mai non sia, ornatissimi religiosi signori, che alcun di noi soggetti esser debba a maledizion sì funesta. Già il Redentor Divino dopo mille stenti e mille atrocissimi spasimi è giunto al Calvario, e omai il sangue Divino cancellar dovrà la spaventosa maledizion del peccato e il tesoro aprire delle celesti benedizioni. Corriam dunque tutti appiè della Croce Divina, ammiriam la gloria infinita che ritrar ne seppe l’Onnipotente, e quella salvezza riconoscendo che da questa a noi ne provenne, di evitar procuriamo quella maledizion funestissima di cui giusta cagione ella fu per l’empio.

You may also like