Il terzo libro della trilogia che Gilberto Lonardi ha dedicato a Leopardi: dopo
“L’oro di Omero. L’Iliade, Saffo: antichissimi di Leopardi”(Marsilio, 2005) e “L’Achille dei Canti” (Le Lettere, 2017), ecco ora ‘Il mappamondo di Giacomo. Leopardi, l’antico oltre e l’antico, un filosofo indiano, il sublime del qualunque’ (Marsilio, 276 pagine, 25,00 euro).
Legato strettamente ai due precedenti, non fosse altro perché ne prosegue e in qualche modo ne intensifica la ricerca dell’autenticità più vera della voce poetica e della statura di intellettuale dell’amatissimo Leopardi nel complesso rapporto che egli intrattiene con l’antico ricavandone, sulle soglie del moderno, la più originale, lucida, laica, insostituibile modernità.
Il cerchio piace all’autore di questo libro, costruito concertando, accordando strumenti. Pedale continuo, il dialogismo leopardiano. Tra orizzonte dell’Origine, pensiero in atto, poesia, mentre da capo a fondo vi si affaccia e riaffaccia il grande lirico interrogante del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Non vi si rifiuta, in compagnia di Giacomo, la sfida. Da qui l’aprirsi, sulla sua scia, per esempio, sì a Rousseau, ma più al suo opposto, a Voltaire. E riserva sorprese l’attenzione di Leopardi non solo alla religione-filosofia della Persia, ma, insieme, all’India antichissima: al Buddha. La mira è al disegno complessivo di un poeta e intellettuale intrigato dal canto di Omero o di Mimnermo o di Anacreonte, o da Qohélet o da Virgilio, o da Dante o dal Monti dell’Iliade, o dal pensare in grande di un Pascal, o dalla prima modernità dei narratori dell’io; ma anche dal canto di un muratore. Da ascoltare come un’epifania dell’Inizio. O da quello di una filatrice di paese. O da quanto insegna la moltitudine senza nome. Dunque un personaggio che frequenta le cime, ma pure conosce la seduzione del ‘margine’. E disponibile, allora, anche alla scommessa del «gettarsi via». Non in cerca, vedi L’infinito, di un cielo mistico-spiritualistico, ma della medicina, chiesta al tragico di esperienze come quella del naufragio, della dolcezza di un pur passeggero, ‘terrestre’ fremito per esserne uscito salvo. E un poeta e pensatore molto preso dal gran problema del male, fino all’abbozzo di un inno all’eterno trionfo del dio-diavolo persiano, Arimane. Un pensante-immaginante anche quando trascende un altro frammento, sul «Tutto è male» – da affidare nel 1826 a un antico «filosofo indiano» – nell’«a me la vita è male» di un pastore asiatico: figura ‘in canto’ del qualunque, e, insieme, del sublime. Come poi due creature dell’ultimo Leopardi: una foglia di faggio, foglia qualunque, ‘da nulla’, ma portatrice di un alto messaggio, in Imitazione, e il fiore gentile della Ginestra.
E’ uno studio, articolato in cinque parti, che a tale esito perviene attraverso una lettura di Leopardi (soprattutto “Canti” e “Zibaldone”, spesso letti direttamente sulle carte vergate dalla mano di Giacomo, ma naturalmente anche molto altro) che consente al critico – ben fermo nel cogliere la mobilità ma anche i punti fermi dei tempi diversi del lavoro del poeta – ad un vastissimo campionario di opere e autori che va dagli antichi ai più immediati precedenti del Leopardi, dai più culturalmente vicini ai più lontani.