Dante ha camminato con la storia, con gli usi che lungo i secoli ne è stato fatto in base alle ideologie e alle finalità egemoni, ed è sommamente istruttivo ripercorrere il travagliato viaggio mentre fervono le celebrazioni del settecentesimo anniversario della morte.
Fulvio Conti si è preso la briga di scrivere un testo (Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, pp.242, € 18, Carocci, Roma 2021) che racconta un itinerario non meno periglioso di quello che il poeta fece nell’immaginato Oltremondo. Anche la ricezione di Dante parte dall’inferno delle violente contese fiorentine, sale per il purgatorio della malinconica espiazione, culmina attingendo la luce paradisiaca dell’approdo finale. Risorgere è qui verbo non impiegato a caso. Fu Vittorio Alfieri a suonare la squilla che trasse Dante dall’ombra per metterlo in scena abbigliandolo coi panni tricolori dell’incipiente Risorgimento e presentandolo come il profeta inascoltato di un un’unità patriottica da conquistare. Carlo Dionisotti nel 1966 (settimo centenario della nascita) notò che in quel frangente le manifestazioni si intonarono «alla religione laica, democratica, nazionalistica e storicistica, affermatasi in Europa del secolo scorso». Giosue Carducci nel 1895 non esitò a esaltare questa prospettiva: «Dante nostro – scrisse – tornò quel che veramente e grandemente anche fu, un sublime, un ardente, un fiero e indomito amatore della sua patria, della madre nostra Italia». Quell’“anche” è un’astuta messa a punto: non era il caso di interpretare l’opera dell’Alighieri annettendola in blocco alla temperie risorgimentale, ma, sia per la lingua che per lo spirito combattivo, meritava di essere annoverato tra gli eroi dell’Italia a venire. Giuseppe Mazzini non fu da meno. E molte autorevoli voci europee, da Madame de Staël a Byron inclusero Dante nel mondo di un Romanticismo che ricercava nella gloria del passato le ragioni per edificare un futuro governato da luminose tradizioni. In ambito letterario emerge una biforcazione di canoni che distingue una linea Petrarca caratterizzata da un lirismo individuale e una linea Dante militante, gagliardamente esortativa, pubblica, pedagogica. Nel loro insieme le cerimonie non solo fiorentine del 1865 apparvero a Luigi Settembrini intinte di un laicismo perfino eccessivo. Dante fu completamente laicizzato e la colpa di aver sminuito o tolto ogni risonanza religiosa andava attribuita al clero: «Non è il popolo – sottolineò –, che si è scordato del Cristo, ma sono i preti che abusando del Cristo hanno stancato la pazienza del popolo, che ormai non si cura più di loro, fa le grandi feste senza di loro». Semplificazioni, senza dubbio. Dante era strattonato per suscitare un sentimento nazionale, per “fare gli italiani”, insomma, e perdeva molto per strada della densità teologica della Commedia che Boccaccio aveva qualificato Divina e che, invece, era proposta con insistenza come una Comédie humaine di vizi e virtù, di sanguinose disfide e ansiosi riscatti. La sfilata a Firenze dei labari dei municipi commosse fino alle lacrime quasi fosse un concorde plebiscito di popolo che smentiva avvelenati e paralizzanti particolarismi. Forse in funzione antileghista il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani sembra voglia organizzare un corteo ispirato allo schema di allora. Non sarebbe l’unica bizzarria di un sontuoso programma che a marca un’identità regionale con un logo dal sapore vernacolare di cui è meglio tacere: «Dante O Tosco».
C’è stato anche un Dante massone, avvolto in esoteriche nebbie. A nome del Grande Oriente Italiano Vittorio Imbriani, bizzarro hegeliano, sostenne che «l’Allighieri era iniziato a’ nostri misteri». Quindi i Liberi Muratori Italiani avevano il dovere di onorarlo associandosi ad ogni occasione che ne magnificasse l’opera. Gian Mario Cazzaniga in un saggio su Dante profeta citò una miriade di omaggi: significativo un intervento, rivolto agli adepti giusto all’altezza del 1861, di David Levi, segretario del nascente G.O.I.: «Studiate col lume massonico la grande allegoria dell’Italico Trismegisto: penetrate dentro alle segrete cose, come Dante ne fu a sua volta introdotto da Virgilio».
Fulvio Conti non si limita a illustrare la caratura politico-civile attribuita a Dante, che talvolta ebbe più valenza folcloristica che propriamente critica. I guai più consistenti per una lettura intera di un sistema così ricco di simbologie e allusioni, di riferimenti scritturali e ritratti carpiti dalle cronache o dalla diffusine orale li combinò l’idealismo crociano, che, condannando l’impianto dottrinario a favore della libera incisività poetica, favorì l’isolamento di exempla commestibili e relegò in secondo piano le radici filosofiche. Il Dante che è stato insegnato a scuola fino a pochi anni fa ha risentito molto di un’impostazione che facilitava (e falsificava) l’approccio, evitando al lettore di inoltrarsi nei sottili garbugli dell’ineffabile. Durante il fascismo dominò il campo un culto guerresco e militarizzato. Nel 1921 l’epicentro della macchina celebrativa fu la città che custodisce le spoglie del “ghibellin fuggiasco” e la massiccia mobilitazione di squadristi della lugubre Marcia su Ravenna fu una sorta di anticipazione dalla marcia tragicomica dall’anno successivo.
E i cattolici stavano a guardare? Non del tutto. Benedetto XV ruppe il silenzio addirittura con un’enciclica, In praeclara summorum, ma si sarebbe dovuto attendere Paolo VI, che con la lettera apostolica Altissimi cantus del 7 dicembre 1965 ribadì la convinzione che Dante «rappresentava – riassume Conti – il poeta cristiano per eccellenza». Toni da acre pamphlet si alternano a una scultorea figuralità, rivisitazione dell’eredità classica stanno accanto alla sublimazione della novellistica popolare, estensioni dottrinali sono interrotte da dure invettive. Nel lavoro d’un artista geniale più si accumulano significati sottintesi e studiati echi speculativi più insorgono tendenziose assimilazioni propagandistiche.
Dalla rigorosa – e piacevole – carrellata scandita da questa brillante guida scaturisce, per chi voglia riflettere oggi sull’interminabile viaggio di Dante, l’invito a leggere un’icona diventata globale prendendo le distanze dal frastuono da malebolge che ci assedia. Come si può oggi declinare l’ambizione di universalità insita nel capolavoro che non ha confronti in un mondo abissalmente distante dai connotati danteschi? Le banalizzanti attualizzazioni a buon mercato sono effimere. Stucchevoli anche se utili le iniziative turistiche, le discettazioni erudite, l’affabilità ammiccante da cantastorie di Benigni & imitatori. Proprio le cangianti coloriture dell’icona dovrebbero spingere a prendere la strada più consona: ritrovare la contemporaneità di Dante nei suoi versi, nella passione che muove un viaggio che continua a parlare a tutti. È il magnetico fascino di una parola-pensiero che sopravvive nei secoli e ci coinvolge ancora. Quanti i fuggitivi e gli esiliati in viaggio che inseguono – ciascuno a suo modo – un approdo pacificato, oltre il tempo breve!