“L’affare Adelaide si manifesta più con domande che con risposte. Prendiamo Pascoli, prendiamo Saba, o Ungaretti. Abbiamo studi critici della figura materna di questi autori, e dunque accurate ricerche biografiche, così copiosi da illuminare un versante cruciale del cammino della loro poesia. Per Leopardi non è proprio così, non ancora almeno. La sterminata bibliografia ci ha detto molto sulla reale dimensione di poeta e di filosofo. Tuttavia, ecco, dal punto di vista dello scandaglio della figura materna, sembra quasi che Giacomo venga considerato un… orfano. Prendiamo il caso delle poche lettere scambiate tra madre e figlio, quattro, forse cinque in tutto. Adelaide, dopo che Giacomo ha lasciato Recanati, quasi proibisce al figlio di scriverle, è lui stesso a ricordarlo nel gennaio del 1823. Ma perché, perché questa richiesta materna, da dove origina esattamente? In sé risulta atto tra i più gravi nella relazione, il segno di una rottura totale. Intende considerare il figlio che se n’è andato da casa ormai sepolto per lei? Eppure è la stessa che paga le spese di pubblicazione di due canzoni di Giacomo, vendendo per questo alcuni suoi propri gioielli. Quando lui viveva ancora a Recanati, sotto il suo muto sguardo carcerario, si dirà. Vero, ma è pur vero che nel 1832, dopo lungo tempo che né si vedevano né si scrivevano, lui le chiede un assegno mensile (“di dodici francesconi”), e lei, pur ancora alle prese coi debiti, esegue senza chiedere ragioni. A parte il senso del dovere, come si spiega?”
Diversa e certo più intensamente esteriore fu la relazione filiale di Giacomo con il padre Monaldo.
“Del rapporto con il padre Monaldo è stato sviscerato tutto e lo scambio epistolare è costante, fitto, primo destinatario di tante missive, e anche l’ultimo, come un cerchio che si chiude. Monaldo appare come figura “interessante”, perfino simpatica (Adelaide no, né l’una dimensione né, tanto meno, l’altra). Eppure, il rapporto tra padre e figlio non scorre su un unico sentiero, ma su un doppio binario. Monaldo proietta sul figlio la propria passione e anche vocazione letterarie, e dunque lo sostiene negli studi. Ma lo vorrebbe indirizzare verso una carriera ecclesiastica, e poi non è solo un padre all’antica, di più, è un sanfedista, un reazionario a tutto tondo. E Giacomo deve probabilmente proprio a lui, per contrasto, il senso di ribellione che presto lo anima. Ma l’affetto è reciproco, dichiarato. Qual è invece il luogo dell’affetto tra Adelaide e Giacomo. Intanto, esiste questo luogo? Non può non esistere, in qualche particolare forma. Si è frantumato? E a seguito di cosa, esattamente? E questo luogo, si potrebbe aggiungere, non chiama forse in causa anche Paolina e Carlo oltre a Giacomo?”
Torniamo ad Adelaide, dunque.
“La questione riguarda forse la donna, la madre nella relazione con ciascuno dei propri figli (ne ha partoriti dieci). Quando Paolina non riesce a trovare marito, perché a turno sono tramontate le diverse ipotesi e lei sta già passando l’età, a far naufragare quella con tal Luigi Marini, direttore del Catasto di Roma, è Monaldo, non Adelaide, disposta a differenza di lui a saldare gli 8 mila scudi richiesti in dote. Ed è sempre lei a pregare Giacomo di chiedere soccorso per la sorella, a quel Giordani che tanto detestava. Resta il fatto, che a subire più di tutti la figura materna è proprio Paolina, che finirà per considerare la morte della madre come una liberazione personale. Nel dialogo ho cercato di rendere il senso di una tale liberazione immaginandola che si veste di rosso e abbandona Recanati, dopo essere stata vestita di nero tutta la vita dalla madre. Lo stesso Carlo, che ancor più di Giacomo e di Paolina, ha in vita della madre, espressioni estreme di critica che suonano come condanna, in morte di Adelaide rovescia il giudizio. Forse perché il senso del lutto della madre, che non tocca in sorte a Giacomo, rivela all’altro figlio maschio l’esistenza di quel luogo dell’affetto?”
Insomma, anche Adelaide merita un doppio binario analitico. Anaffettiva di ereditata formazione (mai tenerezze o carezze al primogenito e agli figli, amore espresso con austerità e impicciandosi delle loro cose), schiacciata dalla famiglia d’origine e mortificata dal moralismo religioso (con poche selezionate letture solo devozionali, visto che tanti studi e libri potevano “traviare” gli umani), autoritaria e rigida di pratico ruolo (considerando con enfasi i difetti dei figli, anche per rinfacciarli a tutti) fu Adelaide, così pare, si sa. E però risultò efficace amministratrice dei beni di famiglia dal 1803 (quando la coppia aveva già tre figli piccoli) in avanti; impose con successo un rigoroso regime di economie e risparmi senza perdere il decoro civile (non solo per le apparenze); fece, inevitabilmente a suo modo, da moglie e da madre, come anche da vero efficiente capo dell’aristocratica famiglia.
“Già. Religiosissima, severissima, piena di manie, e anche instabile alquanto. Non sta mai ferma, gira continuamente per il palazzo intenta sempre a impartire ordini. E prima di dormire “confusamente mescola preghiere e conti della giornata”. Ecco emergono qui almeno due dei nodi esplicativi: la sua educazione adolescenziale e il repentino passaggio al debutto come moglie e madre di famiglia. Di questi due nodi sappiamo molto, in verità; salvo a doverne poi misurare le reali conseguenze per una personalità ancora in formazione. Se nel Palazzo Leopardi di Recanati ci sono due piani che simboleggiano due mondi, distanti e scarsamente comunicabili, quello degli studi in biblioteca e il piano di Adelaide, la ragione dovrà essere cercata, e il peso del giudizio distribuito, in un ambito più complesso di quel che chiamiamo il carattere di Adelaide Antici. Cosa sia, per esempio, a fine Settecento, ricevere fino al midollo il credo educativo delle Oblate dell’Assunta di Recanati, di quel cupo e masochistico cattolicesimo propugnatore di un dio muto e punitivo. La stessa bellezza fisica di Adelaide, descritta come straordinaria, reca già da ragazza il solco scolpito di una malinconica severità, quasi un senso di colpa da espiare. Un dato reale che è stato troppo lasciato in ombra è quel matrimonio abbastanza voluto da entrambi e che giunge presto a chiudere una volta per tutte l’irrimediabilità di quel carattere, quando avrebbe potuto liberarlo. Pur essendo stato, caso raro, a proprio modo un matrimonio di colpo di fulmine e d’amore. A vent’anni si passa dalle Oblate a Monaldo, si lascia un palazzo e, fatti pochi metri, si entra in un altro, da marchesa diventa contessa. Ma di che?”
Arriviamo forse a dover ripercorrere anche la pur certa dinamica affettiva tra moglie e marito.
“Adelaide Antici diviene Leopardi, moglie e madre, contro il parere di tutto quel casato, ritenuto il più reputato e solido della Marca. Contro la madre di lui e forse contro la propria stessa famiglia, che aveva offerto a Monaldo di sposare Amalia, la sorella di Adelaide. Entra a Palazzo Leopardi come giovane sposa o come curatore fallimentare di un’azienda decotta e commissariata? Passa l’intera vita a risanare una famiglia non sua e che non l’aveva voluta. E ci riesce. Come? Col credo del suo dio delle Oblate a cui appigliarsi, l’unico che conosca. E non fa certo mancare molto ai familiari. Non i piaceri a Monaldo, dal caffè con gli amici ai libri che continua ad acquistare ogni volta che una nave francese sbarca al porto d’Ancona, giulivo d’aver provocato col suo crack finanziario il baratro che solo lei sembra vedere. Non il decoro delle carrozze e dei famigli, da esibire in pubblico per tenere alto l’onore del casato. Ricorre a chiedere prestito, in segreto, al padre gesuita messicano da lei stessa stipendiato, per perseguire quel suo senso del dovere. Ha un bel dire Monaldo che “il naturale e il carattere di mia moglie e il naturale e il carattere mio son diversi, quanto sono distanti tra loro la terra e il cielo”. Lui è forse il cielo, e lei la terra? E se lui scampa la prigione non è per lei? E poi: di tutti quei debiti, di quel baratro che può divorare all’istante l’onore e il pane di un casato tra i più antichi d’Italia, del tempo lungo che occorrerà per venirne fuori, fatto di giorni severi e tesi, di tutto questo, si può mai mettere a partito i figli? E quando, a che età renderli coscienti, non tenendo più tutto dentro di sé?”
Ritieni, dunque, che Adelaide abbia avuto dalla sua alcune buone giustificazioni per essere stata la moglie e la madre che fu, quelle buone subite anche da condizionamenti esterni, che non aveva scelto, quelle cattive forse non solo sue proprie, quel carattere che non volle o non seppe temperare.
“Il luogo dell’affetto con Giacomo andrebbe chiarito, finalmente. Scrive di lei nello Zibaldone la notissima, citatissima frase: “Non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma li invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli…”. Riguarda lui direttamente? O meglio: è Adelaide, quella di cui parla qui Leopardi? Si sa che il parto di Giacomo, primogenito, è risultato travagliatissimo, al punto da mettere a rischio la vita di uno dei due. Come si sa che Adelaide dichiarò tanto al medico quanto a Monaldo, di voler morire pur di salvare la vita del primo figlio. Giacomo non fu poi allattato dalla madre, ma da una balia, e a volerlo fu Monaldo però. Poiché il tema della madre è di per sé cruciale, inevitabile, quando si parla di letteratura, trovo difficile spiegarmi come mai il punto di vista della critica leopardiana sulla figura di Adelaide sia rimasto pressoché inalterato, nell’Ottocento come nel Novecento, fino ad oggi. Anche quando non si sono percorse le strade degli stereotipi e dei luoghi comuni, che pure continuano a pesare, si è come sedimentata l’idea di una figura univocamente scolpita nella sua negatività. Di lei si sa ancora così poco: di cos’era fatta la sua vita di bambina e di ragazza quand’era ancora e solo un’Antici, per esempio. Del rapporto col fratello Carlo, così assimilabile per corresponsione d’affetti e intese a quello tra Giacomo e Paolina, e anche della devozione amorosa verso Monaldo, corrisposta. Bisognerà aprire archivi, trovare spunti accantonati, fare ricorso ad altre discipline, per rivedere giudizi sedimentati da ormai due secoli. E bisognerà riconsiderare questa figura, in sede critica, anche alla luce di nuovi strumenti d’indagine di cui oggi bene o male disponiamo.”
Zagato suggerisce un campo di ricerca collettivo e articolato sulla personalità di Adelaide Antici Leopardi.
“Leopardi è patrimonio tale di cultura al mondo da non poter lasciare nell’ombra, come irrisolta, o inespressa, o peggio ancora marcata in un recinto di pura negatività, l’incidenza reale della madre nella sua vita di poeta e di filosofo. Uno di questi nuovi strumenti, comunque lo si intenda considerare, è quello della critica analitica e psicanalitica. Tanta letteratura è stata rivisitata a partire, per esempio, dall’archetipo della madre di Jung sul finire degli anni Trenta, e dalla rielaborazione di Hillman in anni più recenti. Nel nostro caso credo che non muterà il piacere emozionale, e insieme intellettuale, di una nuova, instancabile lettura de L’infinito. Ma forse ci dirà ancor più e ancor meglio del viaggio interiore di un’anima nel giungere fin lì, come ci si sarebbe espressi in epoca romantica. E sarà allora un altro modo di dirla, di leggerla, di sentirla. Quella tra Adelaide e Giacomo andrebbe eventualmente vista come una reciproca, incurabile ferita. Una ferita non chiusa, per parafrasare l’espressione di un poeta semisconosciuto, Giovanni Boine, guarda caso leopardiano. Il senso, se mai c’è, del dialoghetto immaginario fra Adelaide e Giacomo, per me sta qui, esattamente. Perché l’archetipo con la madre è sempre, sappiamo, l’archetipo di una diade. Che si manifesta nel tempo moderno, soprattutto in una forma: quello della madre cattiva e del figlio buono.”
Vi sono state a lungo molte opinioni controverse sulla personalità del buon figlio Giacomo e meno su quella della cattiva madre Adelaide.
“Alcune scuole di teoria psicologica, questo ci dice Hillman – e si potrebbe aggiungere: svariate critiche letterarie, di conseguenza -, finiscono intrappolate nello stesso pensiero di modello delle madri, incolpate della responsabilità dell’umana condizione. Qualcosa di simile continua a serpeggiare negli immediati dintorni della critica leopardiana, e per quanto sia sempre più residuale, finisce per limitare la comprensione che dovremmo avere della grandezza di Leopardi. Allora occorrerebbe “prendere in carico” la sorte di questa madre, riconoscerla nel suo essere, in quanto madre, tanto buona quanto crudele, e vederla per quello che è, è stata, donna prima e più ancora che madre. La forma del dialogo tra i due mi ha aiutato più di quanto avrebbe potuto lo scambio epistolare. Non solo perché Adelaide scriveva poco, almeno una volta diventata una Leopardi, e Giacomo non le scrive mai. Ma per il fatto che nel dialogo ha il suo peso la voce di chi parla, le sue pause e i suoi accenti; nella lettera quella di chi la riceve, e finisce per darle un altro senso. D’altra parte è vero, non è soltanto immaginario: è prima ancora impossibile. Ma se ugualmente l’ho scritto, è perché sono persuaso che, madre e figlio, quelle cose se le sono comunque dette. Nell’unico modo possibile, per il rapporto che hanno avuto: ognuno a sé stesso, dentro una comune solitudine”.