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Da Silvia a Ranieri: Leopardi e i rischi dell’omologazione—di Roberto Barzanti

by Roberto Tanoni

di Roberto Barzanti
“il manifesto”, “Alias”, a. X. N. 42, pp. 6, 7, 8, 25 ottobre 2020

 

Da Silvia a Ranieri: Leopardi e i rischi dell’omologazione
Nelle biografie di autori che vanno per la maggiore non di rado si mettono in ombra o si trascurano del tutto risvolti inerenti la loro sessualità. Il complesso rapporto tra sensi e scrittura è spesso sfiorato o presentato secondo schemi che non ne trasmettono vibrazioni, oscillazioni e ambivalenze. Franco Buffoni nel suo impetuoso e arrovellato pamphlet Silvia è un anagramma (pp.
334, €16, Marcos y Marcos, Milano 2020) fa propria un’avvertenza di Milo De Angelis, il quale a chi lo ha interrogava sulla necessità o meno di conoscere analiticamente la vita di poeti e letterati per poter apprezzare in profondità la loro opera rispose: «Dipende. Per certi autori può essere fondamentale, per altri è assolutamente indifferente; di altri ancora, come di Montale, sarebbe
meglio non sapere…». Giusto: non si tratta di stabilire un nesso causale di ascendenza positivistica o psicanalitica tra esperienze e invenzioni, tra pratiche del corpo e costruzioni mentali, ma la questione andrà tenuta presente, e i dati biografici – biologici – sono una base indispensabile per fornire ritratti credibili, quale che sia stato il loro peso nella tensione espressiva di pagine destinate
a circolare con una loro autonomia. Buffoni non segue con coerenza l’indicazione di De Angelis e pare piuttosto dominato, lui omosessuale, da interpretazioni scaturenti dal “campo della precomprensione” (Preunderstanding) , come definito da Gadamer sulla scia di Heidegger, molto
ricorrente nell’ermeneutica giuridica. Ciò non toglie che parecchi passaggi delle sue analisi siano ben documentate e meritino di essere senz’altro accolti. Egli sa bene che sarebbe sciocco ripristinare le manie di chi risolveva in impertinente aneddotica psico-fisiologica la ricerca del
segreto dell’ispirazione, le scaturigini prime di mondi fantastici o di realistiche rappresentazioni. E soprattutto in poesia, dove abbondano allegorie o metafore, sarebbe ingenuo e sbrigativo darsi da fare per trovare nel vissuto la chiave di volta di una comprensione che richiede ben altri strumenti.
Tuttavia è pienamente condivisibile l’ira che pervade Buffoni, meritorio e combattivo antesignano dei Gender Studies e della loro applicazione pure in ambito letterario. Nei manuali scolastici, ma anche nella vulgata pubblicistica, sono innumerevoli le censure e le mutilazioni che nascondono, alludono, ignorano, in nome di un perbenismo che vuol evitare imbarazzi o scandali difficili da spiegare o semplicemente da commentare. Il rischio di un futile gossip è in agguato. La tendenza a levigare o smussare gli angoli insidiosi di percorsi non lineari è anteposto al vero o alla verisimiglianza di ipotesi non campate in aria. Così Buffoni sceglie per esempi tre emblematici casi,
tre figure monumentali e ne svela aspetti secondo lui tenuti sotto traccia o a bella posta marginalizzati: addirittura Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Eugenio Montale. Insieme ai tre nomi principali si affollano nelle sue pagine altri nomi, in un elenco confuso e non calibrato. Wystan Hugh Auden sta accanto a don Lorenzo Milani, Umberto Saba a Thomas Stearns Eliot.
Tutti sulla stessa barca, quando a ogni esperienza è necessario accostarsi con prudente rigore, a ogni itinerario nella sua singolarità, non istituendo collegamenti meccanici tra ricostruzione problematica
del vissuto e compiuti risultati dell’opera, ritmata in versi o narrativamente scandita.
Mi limito a rilevare alcuni passaggi nella trattazione riservata a Giacomo Leopardi, sul quale ho anch’io meditato a lungo giovandomi delle informazioni disponibili e cercando di vagliarle senza alcun pregiudizio. Sull’amicizia del Contino con il fascinoso esule napoletano Antonio Ranieri, incontrato ventunenne a Firenze nel 1827, c’è ormai una bibliografia enorme e solo in taluni saggi (Damiani) si reperiscono allusioni a possibili esiti omoerotici, come ritengo corretto dire. Dal folgorante incontro della serata fiorentina secondo Buffoni «saltano i parametri di prudenza e la vita di Giacomo muta radicalmente». Fino ad allora le contratte pulsioni gay sarebbero state sotto
controllo, mentre da quel momento fatale – un colpo di fulmine! – sarebbero diventate esplicite e ossessive.
Il titolo del rivendicativo pamphlet di Buffoni dipinge una sensibilità – o sensualità – propria di Giacomo fin dall’infanzia: Silvia è un anagramma sviante non solo perché lo è in senso letterale in quanto scompone il «salivi» della chiusa della prima strofa del canto pisano, ma perché ribattezza la
povera Teresa con il nome di Silvia e perché la triste lontananza da lei sarebbe dovuta non tanto al penalizzante «aspetto fisico» bensì alla «natura di ‘recchió’ in un contesto altamente omofobico».

La velatura anagrammatica sarebbe dunque quasi il filo conduttore in un canzoniere da decriptare estesamente e insita nel sentire nel precoce rampollo sbeffeggiato dai rozzi recanatesi dell’odiato «borgo selvaggio». Una propensione già nelle potenzialità del bìos, se non nascosta nel destino
della zoé ? È in quest’ostinazione programmatica ch’è arduo seguire il libello. La pervicace voglia di attribuire a Giacomo, come agli altri convocati, un’identità fissa, rigida, monocorde, è quanto di più contradditorio possa proporre immaginare chi ritiene la sessualità mobile, esposta a divagazioni,
preda di impulsi molteplici, votata a imprevedibili sortite. Senza negare che ci sono personalità che si distinguono per una tendenza che non consente eccezioni, è perfino banale constatare che i confini son mobili, i ruoli scambiabili, i capricci all’ordine del giorno. E tutte le forme che la sessualità assume devono ottenere identico rispetto. Odiose discriminazioni o pedagogie obbliganti non sono più consentite.
Nella biografia di Giacomo si evidenziamo momenti-chiave o, negli ultimi anni napoletani soprattutto, lunghe fasi che suffragano una riflessione di questo taglio. Ed è strano che proprio alcuni di questi indizi siano trascurati o toccati di sfuggita. Già nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, che risalgono al 1819, ci sono confessioni come questa: «Sogni amorosi ed efficacia singolare de’ sogni teneri notata atta, amore per la balia, per la Millesi (?) , per Ercole (forse il cugino Ettore Mazzagalli)». E la Geltrude Cassi Lazzari, cugina di Monaldo, del Diario del primo amore (1817) non ha la prorompenza imbarazzante di una virago che impressiona per la sua energica bellezza più che per l’attrattiva delicata di una fanciulla con cui conversare in confidenza?
La Fanny conquistata da Ranieri è oggetto di corteggiamento da Giacomo – il fatto chissà, se inventato dalle malelingue fiorentine, è riferito da un incredulo Carducci in una conferenza del 1888 –, che in assenza dell’amata si rivolge ad un giovanotto en travesti: «Raccontavano in Firenze che egli quando più ardea dell’Aspasia, solesse affazzonare con uno scialle un giovinetto congiunto di
lei che molto le somigliava e stesse contemplando a lungo quell’immascherato e dicendogli ciò che non osava all’Aspasia. No ’l credo, e mi pare indegno. Ma che l’Elvira del “Consalvo” sia un rinfattocciamento di frasi con lo scialle, pochi lo vorranno, penso, negare». Una sorta di amore mediato in un gioco a quattro sul quale è lecito scavare a fondo. Durante il soggiorno romano in un appartamento di via Condotti condiviso con Giacomo, Ranieri si reca da un barbiere, tal Piersantelli, che si rivela di Recanati. Costui gli si rivolge accennando a fastidiose insinuazioni: «Com’è ch’ella ha con se il figliuolo del conte Monaldo? ». E il bell’Antonio – rammenta nei Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi – ribatte infuriato: «Con me?…risposi, con severità. Non so
che cosa vogliate intendere. Vuol dire, che siamo due amici che s’è preso un quartiere insieme».
Leopardi aveva sentito il concitato dialogo e se la prende non poco lanciando accuse ai linguacciuti concittadini: «… sappi, ch’io divento un forsennato, al solo sognare di andarne per le bocche di quella gente». Il barbiere aveva fatto notare a Ranieri che la sua protesta era fuori luogo poiché era al corrente di «assai altri particolari». «I quali – brontola di rimando Antonio – o io conosceva assai meglio di lui, o non m’importava né punto né poco di conoscere». Battibecco non privo di enigmi. Infine le lettere di Giacomo all’amico protettore-sfruttatore: sono stese in termini non del tutto
inscrivibili nel formulario consueto del sentimentalismo in uso. E attestano un attaccamento assoluto, un’onda erotica della quale prendere atto. Si sa che Giacomo voleva essere solo quando riceveva in una delle anguste residenze partenopee qualcuno degli scugnizzi che incontrava per i trafficati vicoli minacciati dal colera. Tra Eros e Morte lo scenario di fa cupo. A rischiararlo
trascrivo lo stralcio di una premurosa lettera (ignorata) da Firenze in data 5 gennaio 1833: «Ranieri mio caro […] Oh Dio mio! Ma di me non temer mai nulla: io non corro pericoli, e se anche ammalassi, niente si conchiuderebbe, perché la vita che ho, non è tanta, che abbia la forza di ammazzarmi. Caramelli ride di questo mio detto ma l’approva per verissimo. Povero Ranieri mio!
Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente per tua cagione deridono anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino». In poche righe la temperatura di un legame che fondeva amicizia e amore, smaniosa dipendenza e conquistata liberazione.

Roberto Barzanti (Monterotondo Marittimo (Grosseto), 24 gennaio del 1939) è stato sindaco di Siena dal 1969 al 1974, e dal 1975 al 1979 assessore nella Giunta della Regione Toscana e quindi, dopo aver ricoperto l’incarico di vicesindaco e assessore all’urbanistica ancora nel Comune di Siena fino al 1984, è stato eletto nelle liste del PCI e quindi del PDS al Parlamento europeo per tre mandati consecutivi, dal 1984 al 1999. Nel corso del suo mandato parlamentare, che ha concluso nel gruppo del Partito del socialismo europeo, è stato vicepresidente dell’Assemblea e presidente della Commissione cultura e informazione. Si è costantemente occupato dell’armonizzazione delle leggi sull’attività radiotelevisiva su scala europea, delle politiche e dei programmi a sostegno delle culture, dello sviluppo dell’industria cinematografica e audiovisiva, della protezione della proprietà intellettuale, del diritto d’autore e dei diritti connessi. E’ stato relatore al Parlamento tra l’altro per la direttiva ‘Televisione senza frontiere’ (89/552, CE), per il Programma MEDIA e per la direttiva sul diritto d’autore nella prospettiva della società dell’informazione (dir. 2001/29/CE). A questa problematica ha dedicato il volume I confini del visibile (Milano, 1994) e il saggio l’esperienza europea: nuove vie della normazione in l’Autore nella rete, a cura di M.Masi (Milano, Guerini e Associati, 2000, pp. 39-84). Ha coordinato per incarico della FERA (Federazione Europea Realizzatori dell’Audiovisivo ) il gruppo di lavoro di esperti per la proposta di una direttiva europea sul cinema e coordina quello, in corso, per elaborare una normativa internazionale finalizzata alla tutela della diversità culturale. Lo scorso biennio ha insegnato, come docente a contratto, nel corso ‘Il diritto d’autore nell’era digitale’ nel corso di laurea specialistica in radiofonia alla Facoltà di Lettere dell’Università di Siena e quello su ‘Politiche e istituzioni europee e legislazione europea dello spettacolo e degli audiovisivi’ nel corso di laurea in Cinema, Musica e Teatro della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pisa. Attualmente, insegna Istituzioni e politiche audiovisive nella Ue, presso l’Università di Siena. E’ inoltre presidente del Comitato Direttivo dell’Associazione Giornate degli Autori – Venice Days, la rassegna che si svolge parallelamente alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Collabora a riviste (tra le quali ‘Il Ponte’, ‘l’Indice’, ‘Gulliver’, ‘Gli argomenti umani’ ‘Le nuove ragioni del socialismo’) con articoli e saggi sui temi dell’informazione e dei beni culturali. Di recente ha curato il volume Dolce patria nostra. La Toscana di Piero Calamandrei (Montepulciano, Le Balze, 2003).

 

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